No, questo articolo non vuole essere un mero grido di ritorno all’analogico perché “quanto sono belli i vinili- avere il giradischi a casa mi fa sentire una persona migliore”. Bando agli anacronismi, fare musica e usufruire di questo bene immateriale, è indubbiamente un’esperienza molto diversa per la nostra generazione rispetto alle precedenti. Un bene, appunto, ma che cos’è un bene? In economia definiamo bene qualcosa in grado di soddisfare un bisogno. Beni liberi sono quelli illimitati, che non hanno valore economico perché (almeno in teoria) disponibili all’infinito.
La musica non rientra in questa categoria: non è disponibile all’infinito, perché la sua finitezza dipende dalle capacità creative di chi per l’appunto la crea, e non è gratuita. Ma siamo sicuri che sia così? In effetti, per la maggior parte degli utenti, la risposta potrebbe essere diversa. Oggi la musica è pressoché infinita e assolutamente alla nostra portata: ed è qui che entra in gioco Spotify. Una piattaforma che tutti conosciamo e più o meno utilizziamo quotidianamente.
Perché Spotify non è solo brani e album, ci sono podcast, ci sono audiolibri e ci sono playlist generate con le IA perfette per studiare, fare sport, meditare. Qualche giorno fa sono entrata in cucina e ho trovato mia madre tutta concentrata con padelle e padellini sul tavolo. Le ho chiesto spiegazioni e mi ha subito zittita: stava ascoltando una ricetta, ovviamente su Spotify. Quello che ascoltiamo si mescola, si confonde, e il confine tra “musica” che si possa definire tale e tutto il resto si fa sempre più labile: il più delle volte, Spotify non entra in scena per farci ascoltare qualcosa, ma per non farci ascoltare qualcos’altro.
Fino a qui comunque potrebbe sembrare tutto molto bello, democratico, utopico addirittura: tutta la musica del mondo, del cosmo, del creato, un’infinita di suoni e di racconti a portata di smartphone a un costo irrisorio. Se hai pazienza per le pubblicità, puoi persino non pagare. Ma qual è l’altra faccia della medaglia? C’è un interessante articolo a riguardo, uscito sul The New Yorker (https://www.newyorker.com/magazine/2024/12/30/mood-machine-liz-pelly-book-review) che che recensice un libro di recentissima pubblicazione: Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist.
Un libro che non scade nel nostalgismo di una ridente epoca lontana dalla musica in formato digitale, ma si chiede piuttosto quale percorso abbia portato il mercato musicale a riporre tanto potere e ricchezza nelle mani di un solo uomo. Il CEO di Spotify Daniel Ek ha un patrimonio stimato di 7 miliardi, mentre gli artisti che sono semplicemente costretti a seguire questa logica di mercato prendono dai 3 ai 5 centesimi per ogni 10 stream. Quello che va agli artisti è circa il 10% dei ricavi della piattaforma, e insomma non serve un matematico per capire che il sistema non è del tutto equo e sicuramente non favorisce in alcun modo gli artisti emergenti (sotto i mille stream non si prende nemmeno un centesimo).
Taylor Swift e Neil Young hanno di recente alzato la propria voce per protestare contro il sistema Spotify, ma ovviamente ribellarti al sistema è qualcosa che ti puoi permettere solo se sei la cantante più ascoltata al mondo, altrimenti è già abbastanza difficile rimanere a galla. Del resto, è stato proprio il pubblico, negli anni, a voler mettere in piedi questo genere di sistema, con le lotte contro il copyright e l’elogio della pirateria.
Dobbiamo però anche chiederci, se ci rende tanto felici poter ascoltare gratis tutta questa bella musica di notte e di giorno, che ne è di coloro che davvero ci consentono questa esperienza? E no, non parlo di Daniel Ek e della sua compagnia, ma di quegli artisti che probabilmente tra una registrazione e l’altra tirano a campare come capita. E siamo davvero sicuri di aver bisogno di “musica all’infinito” fatta di playlist tirate fuori dal cilindro di un’intelligenza artificiale?
Avevo promesso di non cadere nell’elogio del vintage e dei bei tempi andati e non lo farò, e comunque io sarei troppo pigra per andare a comprarmi i dischi in negozio ogni volta che il mio mood mi suggerisce una nuova playlist mentale, ma forse qualche volta sarebbe bene levarsi le Airpods e scoprire che esiste tanta altra musica, oltre a quella che mi suggerisce l’algoritmo del mio account su Spotify: ma è questo ciò che la piattaforma teme di più, che io mi levi quelle maledette cuffiette. E allora metto “musica rilassante di sottofondo” per non sentire nient’altro, niente di niente.
Taylor Swift: ecco perché la cantante statunitense ritiene che gli artisti debbano “liberarsi” da Spotify. Fonte: ABC News.