Nato agli inizi degli anni ’90 e amato in tutto il mondo, riconosciuto come uno dei gruppi più interessanti della scena elettronica di massa, tra i pionieri del big beat, in grado di portare alla luce la cultura underground e far entrare l’universo rave nei media: i The Prodigy non possono essere facilmente definiti, ma di certo sono stati e continuano a essere energia allo stato puro in grado di superare i “confini” dei generi musicali per andare verso l’intensità artistica.
Meraviglioso e insolito, il prodigio è un nome che si addice al gruppo in grado di spaziare tra big beat, breakbeat, industrial, hardcore techno, jungle, early rave, dubstep, techno-rock …non solo per l’attenta ricerca musicale ma per una forza espressiva e poliedrica travolgente, che ha contribuito a rendere le esibizioni live della band britannica leggendarie in più sensi.
[…] Non sono diverso da loro [dal pubblico, N.D.R.]. Non sono migliore della folla. Li rappresento e sono fondamentalmente il palcoscenico che non si lascia buttare giù. Io sono loro. Senza quelle persone che fanno quello che fanno e provano quello che provano, non potrei farlo. Sono il mio carburante. Non sto cercando di essere in linea o in contatto con i miei interlocutori, ma è semplicemente così che funziona.
Keith Flint, The Prodigy Interview (Part 1), Clash Magazine, 2009.
Originariamente composto da Keith Flint, Maxim Reality e Leeroy Thornhill (a cui presto si aggiunsero Liam Howlett e Sharky) il gruppo britannico è partito dal sottobosco musicale per arrivare a scalare le classifiche mondiali con successi senza tempo quali Firestarter, Breathe e Smack My Bitch Up.
L’immagine ribelle è uno dei tratti distintivi che accompagna i The Prodigy in un cammino creativo degno di nota, iniziato con le sonorità di singoli quali Charlie ed Evil Minds, entrambi inclusi nel primo album della band, Experience (1992, XL Recordings).
In un periodo di grande evoluzione musicale in Inghilterra, i “primi prodigi” si erano appena mossi lasciando già un segno indelebile: Liam Howlett come compositore, il vocalist Maxim Reality, Keith Flint, Leeroy Thornhill e Sharky come ballerini, avevano unito le forze generando un’onda espressiva di grande potenza.
Una potenza che in poco tempo aveva travolto il pubblico internazionale, ormai rapito dalla qualità espressiva della band britannica che intanto, proseguiva con Fire/Jericho, Out Of Space, Everybody In The Place, Wind It U: musica che ancora una volta non si fermava alla musica, ma che si consacrava come interruttore per un gruppo unico nel suo genere e per una scena, fino ad allora, rimasta nell’ombra e sommersa dai giudizi.
Nel 1994 viene pubblicato Music for the Jilted Generation, secondo album in studio della band britannica e ulteriore conferma dell’impatto musicale dei The Prodigy: un album esplosivo, innovativo e dai testi impegnati, contenente brani quali Voodoo People e No Good (Start the Dance).
Per i The Prodigy il picco a livello commerciale si colloca nel 1996 con la pubblicazione di Firestarter che ha ricevuto anche diverse polemiche; la band era pronta a rispondere con altrettante provocazioni (è proprio in questo momento che il carismatico Flint abbraccia totalmente la sua natura da performer, mostrandosi per la prima volta con il suo inconfondibile “look punk”) e con un altro immenso successo: Breathe, contenuto in The Fat of the Land (terzo album in studio dei The Prodigy).
Pubblicato nel 1997, il terzo album dei pionieri del big beat non lasciava più dubbi: con la loro inconfondibile energia, un’estrema forza creativa, la natura ribelle, suoni innovativi ed estetiche dirompenti, i The Prodigy avevano aperto la strada a una nuova generazione di artisti e a un nuovo modo di fare e interpretare la musica.